Pubblicato il: 09 Maggio 2024
Ha gli occhi verdi Lidia, uno sguardo profondo abituato a guardare il mare, la linea d’orizzonte piana e dritta. Eppure la sua vita è stata tutt’altro.
La incontriamo nella Fondazione Istituto Santa Caterina di Francavilla al Mare, che è stata la sua casa per quindici anni, dal 1967 al 1982.
“Vivevo con i miei nonni a Sambuceto, i miei genitori avevano un forno e non potevano occuparsi di me. Sono stati loro a portarmi qui. Avevo solo cinque anni”.
Ha gli occhi lucidi, Lidia Germani, nel parlarci della sua infanzia, caratterizzata da uno strappo con la sua normalità e l’ingresso in quella che per lei è stata “una nuova famiglia”. Quando lasciò la mano dei suoi nonni, intorno a lei c’erano tante altre bambine e ragazze nella sua stessa condizione: la poliomielite. Il Santa Caterina all’epoca era un centro di eccellenza per quante erano affette da questa malattia, che solo nel 1958 fece registrare in Italia oltre ottomila casi, secondo i dati diffusi dal Ministero della Salute.
Stringe tra le mani un album di fotografie e alcune copie del giornalino che veniva realizzato durante gli anni trascorsi in questi spazi. Ha voglia di raccontarsi, Lidia, e comincia con un nome: Maddalena Agresti.
La vediamo di fronte a noi, un busto e un quadro la ricordano. “È stata una mamma per me. Era la direttrice, una suora laica, ha speso tutta la sua vita per il Santa Caterina e per noi. Era severa, ma doveva esserlo: eravamo circa cento, bambine e ragazze di tutte le età. Avevamo problemi fisici, ma di testa ci stavamo e combinavamo un sacco di marachelle. Per me Maddalena è stata esemplare. Ci ha fatto studiare, ci ha insegnato i valori della vita. Ci puniva, se facevamo qualcosa di sbagliato. Per esempio, ci mandava a letto senza ‘Carosello’ o senza cena. Ma eravamo coccolate, la notte veniva l’economa e ci portava qualcosa da mangiare”.
Quando Lidia è stata accolta dal Santa Caterina, l’istituto aveva già alle spalle cinque anni di attività: era, infatti, stato fondato nel 1962 grazie all’energia e all’impegno di un gruppo di donne attive nel volontariato. Tra queste, Tilde Brunetti, assistente sanitaria a Chieti. Fu lei a coinvolgere la sua amica Maddalena Agresti nell’iniziativa: erano entrambe suore laiche. Il loro sogno era dare vita a una struttura che fosse un ricovero per giovani poliomielitiche.
Lidia ci apre il suo album. “Ho lasciato la mano dei miei nonni, tra le lacrime, ma ho stretto quella di Maddalena. Questa foto mi commuove sempre: siamo io e lei” dice, mentre ci indica lo scatto che la ritrae bambina, la sua mano stretta a quella della direttrice. Un futuro nuovo le si apriva tra quelle mura: amicizie, cure, studio e opportunità. “Sinceramente, forse grazie a lei, non mi ricordo di aver avuto un grande trauma a lasciare i miei nonni. Da adulti ci si rende conto della tristezza di non avere la famiglia vicino, ma con le altre ragazze siamo diventate molto amiche, siamo come sorelle. Abbiamo anche un gruppo su Facebook, “Le ragazze del Santa Caterina”, dove ci teniamo in contatto. Devo tanto a questo istituto. Ho frequentato i cinque anni delle elementari qui, le maestre venivano a farci lezione. Le medie e le superiori, invece, fuori dall’istituto, ci accompagnavano con un pullmino. Le medie le ho fatte a Francavilla e le superiori a Pescara”.
Le regole dell’istituto erano ferree: visite dei familiari solo la domenica, telefonate soltanto la sera. Si tornava a casa durante le festività e d’estate. La famiglia provvedeva al necessario: vestiti, saponi e altro. Qualche ragazza non aveva dietro la famiglia e se ne occupava la direttrice.
“I miei nonni vennero a sapere dell’istituto dopo una visita dei Testimoni di Geova: notando la mia condizione, gli suggerirono di portarmi in questo centro che, come lo era il Don Orione di Pescara per i ragazzi, era un’eccellenza al femminile, tanto che ci venivano da tutta Italia, in particolare dal Centro-Sud. Da quando sono entrata al Santa Caterina, ho visto raramente i miei familiari; restavo qui anche d’estate, l’istituto era aperto per quanti non avevano dove tornare o decidevano di restare, ci portavano al mare, le famose colonie”.
Non solo formazione, al Santa Caterina le ospiti erano impegnate in tante attività: ceramica (all’esterno, su una parete, c’è ancora un mosaico realizzato da loro durante un laboratorio), teatro con recite aperte anche all’esterno, ricamo, uncinetto, disegno, scrittura con il giornalino di istituto e altro.
“Si faceva anche terapia, tutti i giorni in palestra, a turni. Era tutto gratuito, un servizio della Asl, prima si chiamava proprio ‘centro di recupero per poliomielitici’. Eravamo divise in squadre, in base all’età. Ogni ragazza aveva un compito: chi controllava i letti, chi le scarpe, chi i vestiti; era tutto molto ‘militare’. Avevamo una lavanderia, mettevamo i panni dentro un pacco e ce li lavavano. Quando faceva caldo, dopo pranzo, si dormiva. Alle 16 si cominciava a fare i compiti, poi le varie attività. Questo mi ha insegnato molto, io so fare tanti lavori manuali. A me chiamavano la ‘prezzemola’ perché mi piaceva stare in mezzo ai grandi. Le nostre camere erano divise da soli armadi, quindi si sentiva tutto ed era importante rispettare le regole, ma spesso le trasgredivamo facendoci scherzi e piccoli dispetti”.
Nelle foto vediamo Lidia mentre recita, mentre è al mare con le altre ragazze, la vediamo con il grembuilino (diverso nei colori e nelle fantasie sulla base dell’età), mentre fa la Prima Comunione nella chiesetta dell’Istituto, durante qualche gita come a Lourdes e a Loreto.
“La religione era molto importante qui, partecipavamo tutte le domeniche alla messa, c’erano le preghiere prima dei pasti, gite ai santuari e regole di comportamento in linea con questa visione. Con l’età dell’adolescenza e la frequentazione delle scuole fuori dal nostro collegio, abbiamo iniziato a vedere i primi ragazzi e a innamorarci, ma non eravamo libere di uscire quando volevamo.
C’erano le finestre della palestra al pianterreno, ci scambiavamo con loro i biglietti, non potevamo farci vedere. Io sono uscita da qui poco prima di sposarmi, a scuola ho conosciuto il mio futuro marito, così è successo anche a molte altre ragazze. Nonostante la rigidità delle regole, ne abbiamo combinate tante. Saltavo le finestre per comprare le sigarette con le mie amiche, fumavano nei bagni di nascosto. Non so come sarebbe stata la mia vita senza il Santa Caterina, mi ha insegnato molto e dato molto, fatto crescere molto. Forse in famiglia non avrei potuto fare tutto quello che ho fatto qui. Non avrei studiato, perché i miei lavoravano quindi non ero seguita. Non avrei potuto fare riabilitazione, non avrei coltivato amicizie così intense, non avrei avuto l’educazione che ho. Questo l’ho insegnato ai miei figli. Mia figlia l’ho portata tante volte qui, le ho fatto vedere tutto; lei dice che sono come la direttrice. Quando non volevamo andare a scuola, Maddalena sul libretto delle giustificazioni scriveva: ‘Non è voluta venire a scuola’. Io ho fatto lo stesso con i miei figli: senza bugie. Qui non esistevano le bugie”.
Il Santa Caterina aveva come obiettivo il favorire l’inserimento sociale e lavorativo di quante lo hanno frequentato, in maniera graduale. Di qui, il passaggio da una scuola interna a quella negli istituti scolastici esterni, condividendo, dunque, le proprie mattinate con ragazzi e ragazze senza la polio e anche, via via, le opportunità formative professionalizzanti. Tra queste, ad esempio, il corso per centraliniste.
“La direttrice voleva farci inserire nella società e questo è stato bellissimo. Io oggi abito in una casa in affitto, a Pescara. Avrei potuto abitare in un palazzo per persone con disabilità, ma non ho voluto; mi piace integrarmi, stare insieme agli altri, anche in spiaggia. Io pratico hockey in carrozzina, ad Ascoli. Ho tre figli e sono nonna di quattro nipoti. La mia vita è pienamente realizzata e, per questo, torno sempre volentieri qui. Mi piace ritrovarmi con le mie amiche dell’epoca, in occasione degli anniversari. Purtroppo, non è così per tutte: alcune hanno voluto rimuovere quegli anni e li considerano molto tristi”.
Se con Lidia, infatti, le finalità dell’Istituto sono state pienamente centrate, per alcune un futuro fuori dall’Istituto non c’è mai stato. Ma il Santa Caterina non le ha abbandonate e nemmeno Lidia.
Ha con sé anche una scatola di cioccolatini: è per una sua amica, che è al piano di sopra. Aveva dieci anni quando è entrata nell’istituto, per non uscirne più. La accompagniamo in questa visita; è emozionata, Lidia, quando le chiede con ironia: “Mi riconosci?”. Nel suo “Sì, sei Lidia”, tutta la gioia di quell’incontro inaspettato. Accoglie il piccolo dono con un sorriso che dice più di mille parole. Le lasciamo un po’ raccontarsi. In quella stanza c’è anche un’altra ragazza che non ha mai lasciato l’istituto dal suo ingresso; ci raccontano che è arrivata molto piccola, non vedente, muta e sorda. Il Santa Caterina l’ha accolta e accudita. Nonostante i tanti cambiamenti che l’Istituto ha subito, chi non ha trovato un suo posto nel mondo è rimasto.
Lungo i corridoi, osservando il mare che è a due passi, Lidia si lascia andare a una confidenza: “Questa è stata la mia famiglia, quando sono tornata a casa dai miei, non vedevo l’ora di andarmene. Non li conoscevo, non mi conoscevano. Infatti dopo soli sei mesi io e il mio compagno abbiamo deciso di sposarci”.
Ma cos’è diventato oggi il Santa Caterina? Lo scopriamo con la direttrice
amministrativa Teresa Turzio e con la coordinatrice residenziale Stefania Formisano; con noi anche Clara, una dipendente, che aveva una sorella con la polio ricoverata al Santa Caterina.
“Quando la malattia è stata debellata grazie al vaccino” – ci raccontano – “l’Istituto inizia ad accogliere, nella seconda metà degli anni Ottanta, persone down, tetraplegiche, epilettiche, grazie a una convenzione stipulata con la Asl di Chieti, trasformandosi in Centro riabilitativo extraospedaliero territoriale. Nel 1996 il Santa Caterina diventa una Fondazione, il cui Consiglio Direttivo è attualmente presieduto da Lucia Masciarelli.
“Oggi ci occupiamo soprattutto di riabilitazione” ci spiegano. “Nel nostro reparto abbiamo 53 posti letto disponibili. L’attività si rivolge a persone di ogni età con disabilità transitorie o permanenti, come rottura di femore, protesi e altro. Oltre alle due ragazze con la polio, sono rimasti qui anche dieci pazienti epilettici e down. Gli spazi sono stati rimodulati sulla base delle nuove esigenze: al piano terra ci sono gli ambulatori per esterni, come quello di logopedia, c’è una palestra per adulti e bambini, la chiesa e gli uffici amministrativi”. Proprio in questi spazi, ci dicono, c’era la camera di Maddalena Agresti: lei viveva con le ragazze così come alcuni operatori, ed è morta in istituto. Al primo piano c’è la degenza, il secondo piano ha la stessa finalità, ma al momento non ci sono ricoverati; infine, c’è una panoramica terrazza.
È il momento dei saluti. Lidia lascia l’istituto insieme a noi e vuole aggiungere una foto al suo album dei ricordi: uno scatto che la ritrae all’ingresso dell’istituto con l’attuale direttrice amministrativa. Nel congedarci, torniamo a guardare il mare, da sempre nello sguardo di Lidia, una donna che ha saputo affrontare le burrasche e il sereno sempre al timone della sua vita.